LA PARITÁ DI GENERE PUO' DERIVARE DA UNA LETTERA?
IL “caso” ARCHITETTA: proviamo a fare chiarezza.
30/01/2021. Tempo di lettura stimato circa 10min
In questi giorni, su Internet, è tornata alla ribalta la questione della denominazione professionale “architettA”. La storia non è nuova: inizia nel 2010 – se non addirittura prima – anche se ha cominciato a diffondersi prepotentemente dal 2017. Nonostante l’argomento potesse – o dovesse – riguardarmi da vicino (architetto o architetta lo sono dal 2015) non mi ci ero mai davvero soffermata sopra; almeno fino a qualche giorno fa, quando la disputa è entrata forzatamente nella mia “bolla virtuale” tramite due diversi post su LinkedIn e su Facebook. A quel punto, leggendo soprattutto i commenti, non ho potuto non approfondire l’argomento.
Lo scopo di questa riflessione non è quello di fomentare le polemiche ma di informare, anche perché in questa storia mi pare ci siano troppe lacune da colmare.
Partiamo dall’origine della questione. È il 2017 e siamo presso l’Ordine degli Architetti di Bergamo. Tre colleghe, Silvia Vitali, Francesca Perani e Mariacristina Brembilla chiedono all’Ordine di poter ottenere il timbro professionale con la denominazione al femminile: architetta. L’Ordine accetta. L’evento è in realtà solo uno fra i molti che già al tempo caratterizzano la sensibilità del “territorio” Bergamasco alla questioni di genere nell’ambito della professione: Internet ha fatto della denominazione professionale la protagonista della storia, ma alle sue origini si cela molto di più.

Le colleghe le troviamo infatti già attive almeno dal 2010. La Perani e la Brambilla sono state fra le tre fondatrici del gruppo “Archidonne”, una sezione interna all’Ordine volta a sostenere, promuovere e tutelare il lavoro delle colleghe e la parità di genere (per tutte e tutti). Ad esempio, tra le principali richieste mosse dal gruppo al tempo, troviamo “l’esenzione dalla quota di iscrizione annuale per neo-padri e neo-madri”. Già al tempo il gruppo usava la denominazione “architette” per riferirsi alle colleghe.
Dopo l’esperienza di “archidonne” Francesca Perani decide di fondare “RebelArchitette aps”, un’associazione di promozione sociale aperta a tutte e tutti. Leggiamo nel loro Statuto che lo scopo dell’associazione è sintetizzabile in tre punti:
1_ la sensibilizzazione della società civile e di coloro che operano nel mondo dell’architettura ad una visione inclusiva, intersezionale ed equa della professione.
2_ la promozione della ricerca e della diffusione del ruolo delle donne nel mondo della progettazione e della costruzione a livello nazionale ed internazionale, combattendo ogni forma di discriminazione.
3_ la compresenza di azioni di attivismo e di ricerca favorite da collaborazioni internazionali in rete.
Anche in questo caso, al punto 4 dello Statuto di RebelArchitette aps ritroviamo il termina “architetta”.
Tutto questo lo dico per sottolineare che la denominazione professionale al femminile, pur caratterizzando l’operato delle colleghe, non è un orpello sterile ma si inserisce in un quadro di attivismo e impegno di tutto rispetto. Sarebbe svilente e falso ricondurre le azioni di “archidonne”, prima, e “RebelArchitette” dopo, alla mera questione del timbro professionale. L’associazione ha creato una rete di mutuo aiuto fra le professioniste che supera persino i confini nazionali, promuovendo il lavoro di progettiste che troppo spesso vengono sminuite e/o oscurate dai colleghi uomini (si vedano ad esempio le campagne di sensibilizzazione sui casi di giurie, o commissioni di docenti di corsi o master di progettazione, in cui la presenza al femminile è stata negata a favore di gruppi totalmente al “maschile”).
"La sensibilizzazione della società civile e di coloro che operano nel mondo dell'architettura ad una visione inclusiva,
intersezionale ed equa della professione."
Primo Punto dello Statuto di RebelArchitette
Il minimo comune denominatore di questi sforzi è l’apertura di spazi e di possibilità, non certo la creazione di obblighi draconiani. D’altronde quando le colleghe hanno fatto richiesta di timbro al femminile si sono limitate a promuovere il termine, suggerendo che ne fosse permesso l’uso a chi desiderava usufruirne; non certo a imporlo. Sembra opportuno sottolinearlo perché a causa di una costante cattiva informazione molte giovani colleghe, in fase si iscrizione, pare che chiedano con ansia: “ma sul timbro scriverete sopra architetta?”. No, a meno che tu non lo voglia.


In ogni caso, una volta tornata alla ribalta la questione della denominazione professionale, la Rete ha dato il peggio di sé. Andando per gradi, i commenti meno problematici sono quelli che accusano il termine di essere una “storpiatura” della lingua italiana. Poco importa che le colleghe avessero dalla propria il vocabolario, come dimostra un rapida ricerca sulla Treccani (https://www.treccani.it/vocabolario/architetto/) che menziona esplicitamente la declinazione al femminile del termine, o che le formule al femminile come “arquitecta” in spagnolo, o “architektin” in tedesco vengano già da tempo utilizzate.
Altri colleghi, e purtroppo anche colleghe, hanno poi cercato di spostare il discorso sul piano del ridicolo, sostenendo che questo fosse un precedente scomodo: se permesso l’uso della parola architettA sul timbro allora presto saremmo potuti trovarci invasi da neologismi quali “geometrO”, “pianistO”, ecc.
Al di là del fatto che certe obiezioni si basano sull’illusione di una lingua immutabile, rassereno chi abbia avuto (per scherzo o seriamente) certe paure: geometra, pianista, ma anche collega, sono sostantivi di “genere comune”, ovvero nomi che sono usabili contemporaneamente sia al maschile che al femminile. Per tali nomi il genere viene specificato dall’articolo che li precede. Nessun rischio, dunque, di “pericolose storpiature”.
Ci sono poi stati gli esteti e i pudici, quelli che lo hanno considerato “di cattivo gusto”, “sgradevole”, “fuori luogo” o addirittura “scandaloso” (per il richiamo al seno). Agli scandalizzati, che non abbiano la scusa di essere in età puberale, si potrebbe chiedere se hanno mai provato “pene d’amore”, se hanno mai usato in cantiere una “cazzuola”, o se hanno mai assaporato una tisana “benefica”-…
Il punto non è che il termine è scandaloso, il punto è che qualcuno non ci è abituato.
Nei casi peggiori, purtroppo, abbiamo anche assistito a reazioni spropositate di odio e di violenza verbale: denigrazione, insulti, frasi sessiste, ma anche infamie e notizie parziali (o false) su chi o cosa RebelArchitette fosse, o su chi o cosa sarebbero tutte le colleghe che le seguono e vogliono usare la denominazione al femminile. Come spesso avviene la Rete ha assimilato della questione solo la parte che più fomenta gli impulsi di pancia dei lettori, oscurando una porzione significativa di quello che quest’associazione fa e che va ben oltre il mero termine sul timbro.
“Ognuno di noi è le parole che sceglie: conoscerne il significato saperle usare nel modo giusto e al momento giusto ci dà un potere enorme, forse il più grande di tutti”.
Da “Potere alle parole. Perché usarle meglio”, Vera Gheno, sociolinguista
Un’altra delle accuse mosse alla questione del termine è che “i veri problemi della professione sono “ben altri” e “le battaglie giuste da affrontare non sono queste”. Spesso ad affermare ciò sono colleghi uomini, mossi dall’insaziabile voglia di fare “mansplaining”, ovvero quella pratica non solo di voler spiegare alle donne cosa è meglio per le donne, ma in generale di fare da “maestrini” partendo dal pregiudizio che le donne non siano del tutto in grado di capire o di scegliere, e dal preconcetto che la loro visione del mondo sia la più corretta.
Una delle battaglie che, a detta di molti, dovrebbe essere l’unica vera battaglia da perseguire è quella dell’equo compenso. Eppure questa lotta ha avuto il suo momento proprio nel 2017, anche se molti colleghi sembrano aver perso il treno e contemporaneamente essersene dimenticati. In quel caldo 13 Maggio a Roma io c’ero, e considerando l’elevato numero degli abilitati alla professione che in quell’anno ci portava ad essere “il paese Europeo con il più alto numero di architetti in attività (2,5 ogni mille abitanti)” e che tuttavia “si colloca[va] al 19° posto in Europa (su 27 paesi) per reddito” [dati Cresme]… Beh, purtroppo complessivamente alla manifestazione eravamo molti pochi. Trentamila, sì ma fra architetti, ingegneri, avvocati, medici, dentisti, geometri, geologi, giornalisti, chimici, veterinari, commercialisti… Prima di criticare il lavoro di un’associazione forse dovremmo fare autocritica su cosa noi facciamo per la nostra professione.


Alla luce di ciò dovremmo tutti essere d’accordo non solo che RebelArchitette non è solo “architetta”, ma anche che non nasce con lo scopo di risolvere tutte le problematiche della professione (che esistono ma che sono in prima istanza di competenza degli Ordini). Le accuse a questa associazione di non essere abbastanza o di essere nel torto perché “i veri problemi sono altri” a cosa dovrebbero portare? Che senso avrebbero? Un certo atteggiamento censorio è l’unico veramente privo di senso, e ha il solo risultato di infamare chi almeno prova, e fa, qualcosa di utile per tutte le persone che appartengono all’Ordine.
Nonostante tutto c’è chi non può fare a meno di porsi il problema: ma tutto questo rumore per la parità di genere nella professione è fondato? Tutte queste battaglie… Ce n’è davvero bisogno?
La professione tecnica legata al mondo del progetto, che sia di tipo architettonico o ingegneristico, è tutt’oggi dominata dagli uomini. Lo dimostrano bene le immagini 3 e 4 di questo articolo. Se è vero che l’equo compenso non ci fa dormire la notte, per una donna è l’equità in generale a essere un sogno: sia a livello salariale (la realtà del gender pay gap è accertata a livello Europeo e non risparmia nemmeno questa professione) sia dal punto di vista del trattamento in ufficio o sul cantiere. Quasi tutte abbiamo subito sulla nostra pelle discriminazioni di ogni sorta, dal collega che mette in dubbio le tue competenze, dal cliente che pensa tu sia la segretaria, al muratore che ha difficoltà a chiamarti finanche “architetto” e ti chiama Signora o col nome proprio (figuriamoci architetta).
C’è chi potrebbe obiettare che in un ambiente così tanto maschilista soffermarsi sulla vocale sia una quisquilia, una indebita confusione fra lotte per la parità di genere e sofismi linguistici. Il punto è che se proviamo a fare un gioco a “parti invertite” scopriamo che la questione linguistica e quella della parità di genere sono legate. Prendiamo in considerazione una professione che per molto tempo è stata prettamente svolta da donne, quella di “ostetrica”. Quando anche gli uomini hanno iniziato a svolgere questo lavoro è stato naturale declinare il termine al maschile in “ostetrico”. Sarà un caso, ma nessuno ha fatto battaglie contro questa scelta, nessuno ha considerato il nome cacofonico né ha urlato allo scempio della lingua italiana.
Difficile dire se fra l’uso del termine e il miglioramento delle condizioni generali femminili nella professione potrà esserci un rapporto causale. Di certo, però, se per qualcuna è importante che questo termina venga usato, perché attraverso questo termine ci si sente meglio rappresentate, non vedo perché non dovrebbe esserci il diritto di farlo. Il timore che questo diritto possa trasformarsi in obbligo è disinnescato ricordandoci tutte e tutti che l’obiettivo di certe battaglie è sempre lo stesso: l’inclusività, cioè la “tendenza ad estendere a quanti più soggetti possibili il godimento di un diritto o la partecipazione a un sistema o a un’attività.” Nel caso specifico, il diritto all’uso di “architetta” e l’inclusione di tutte le colleghe all’interno di un sistema maschilista che troppo spesso nega loro la possibilità di esprimersi e dimostrare il proprio valore.
Quindi per rispondere al dubbio che qualcuno sembra continuare ad avere: sì, tutto questo rumore è fondato; sì, il lavoro svolto da RebelArchitette serve, è assolutamente necessario. Ed è un lavoro, lo abbiamo visto, che non finisce con la denominazione professionale (su cui troppi si sono soffermati) ma va ben oltre. Dovremmo essere davvero tutte e tutti Architette e Architetti Ribelli, uomini e donne e persone non binarie.
Certo è che se le retoriche divisive della Rete ci mettono di fronte a due ipotetiche fazioni, personalmente non posso non schierarmi con chi si fa paladina dell’inclusività, tanto più se “l’altra parte” è costituita da persone (uomini e donne) che fomentano un circolo vizioso di maschilismo avvallando le teorie dei colleghi misogini e sessiti. Forse possiamo immaginare un futuro in cui il genere non sia questione così fondamentale da obbligarci ad apporre su alcuni documenti una X fra “F” e “M”, pratica barbara che non solo esclude le persone non binarie ma che ci pone di fronte a quella stessa questione della denominazione professionale, che potremo forse superare con un unico termine neutro scevro di pregiudizi maschili (come sono appunto i termini “collega” e “geometra” o come avviene in altre lingue come quella inglese).
Sarà utopico, ma se “architetta” è riuscita a farsi strada in questi anni, così come molti altri termini vecchi e nuovi, credo ci sia sempre aperto uno spiraglio per nuove possibilità.
Alessandra Grasso, architetta.