LA PRINCIPESSA SUL PISELLO E UN PRATONE Lì DOVE NON TE LO ASPETTI. O FORSE Sì.
La mia storia per il libro "Il Design è una favola" che prossimamente verrà pubblicato, a cura di Luigi Patitucci.
C’era una volta un piccolo paese dominato da un Re un po’ maldestro, una Regina un po’ rompi scatole e un Principe noto ai molti (ma non a se stesso) per i suoi gusti particolari in fatto di donne. Il piccolo regno non aveva molto di che vantarsi: a dirla tutta il Re non aveva né arte né parte, e durante la progettazione del castello si era fatto truffare da un giovane designer e dal suo compare, un sedicente architetto. Gli avevano spillato un gran mucchio di quattrini per la progettazione degli interni reali, che comprendevano gli oggetti più disparati: un tavolino sorretto da una donna seminuda, un enorme gorilla di plastica che scrutava l’ingresso dal fondo del salotto e dozzine di materassi colorati di cui nessuno, nella famiglia reale, sapeva proprio che fare. Ah, e ovviamente un pisello: un pisello secco, vecchissimo, duro come un sasso, che si diceva essere magico o maledetto o qualcosa del genere.
Comunque i problemi del regno non si limitavano mica ai materassi e ai piselli. Tanto per dirne un’altra, al di là delle mura di cinta del paese si estendeva un soffice e alto prato fatto di foglie carnose, belle grasse, praticamente magico (compreso nella proprietà del castello, e costato parecchio pure lui). Il prato, di per sé, non sarebbe stato un problema, anzi. Solo che era così confortevole che tutti gli abitanti del piccolo paese passavano la maggior parte del tempo sdraiati lì sopra, e questo li rendeva incredibilmente poco produttivi.
Il principale estimatore di quel pratone era il Principe, il “pargolo”, come lo chiamava sua madre. Quest’ultima passava le proprie giornate lontana dal pratone, in compenso sbraitava costantemente contro il marito, non mancando mai di ribadirgli la sua inettitudine; solo la vista del suo caro figliolo, il “pargolo” appunto, placava la sua ira. Lo guardava sdraiato che si trastullava tutto il giorno, tutti i giorni, eh pensava: “Eh, quel prato! Gioia e dolore insieme”. Già, perché da una parte sapeva che quel prato, finché fosse esistito, avrebbe trattenuto il “pargolo” ben vicino alle sue sottane; dall’altra era un costante memento della truffa subita dal marito (e dunque della stupidità del coniuge).

Comunque sia, immaginate lo stupore della Regina quando un dì il Principe si alzò dal pratone ed esordì dicendo:
“Cari genitori, ho deciso di prender moglie! Domani stesso partirò per cercare una Vera Principessa da sposare.”
Esterrefatta, la Regina rispose:
“Ma tesoro, sei solo un fanciullo, un pargolo! E poi lì fuori è pieno di finte principesse arrampicatrici sociali, come potrai difenderti dai pericoli del mondo? Se proprio devi cercar moglie almeno portami con te, così che io possa darti consiglio!”
Il Principe storse il naso nel modo in cui i Principi storcono il naso quando le loro mamme si propongono di accompagnarli a fare qualunque cosa, e rispose:
“Ma madre, cosa diranno di me gli altri Re vedendomi accompagnato? Che sono un incapace, ecco cosa! ‘Guardatelo, il Principe del piccolo paese, che a quarantacinque anni gira ancora con la mammina!”
La Regina, già turbata dall’idea dello sposalizio, rimase impietrita di fronte a tanta insolenza. Cercò di far ragionare il “pargolo” meglio che poté, ma quello fu irremovibile ed il giorno seguente si mise in marcia, da solo.
Arrivò nel primo castello, poi nel secondo, nel terzo… Dopo venti castelli e parecchie marce, per quanto fosse stupefatto dalla moltitudine del mondo al di fuori del suo piccolo paese , non era ugualmente soddisfatto: nessuna delle principesse era di suo gradimento, nessuna gli appariva come sarebbe dovuta essere, come la Vera Principessa che voleva sposare. C’era qualcosa nel loro portamento, nel loro aspetto, che non lo convinceva mai del tutto.
Turbato e sfatto, decise di mettere in pausa la recherche e godersi un analcolico in un baretto lì vicino. Si sedette al primo tavolo libero e iniziò a sorseggiare rumorosamente il suo drink. Dal capo opposto del locale tre uomini iniziarono ad occhieggiarlo: erano i Signori Terceti, Sorso e Ordessi, noti in tutta la provincia per le loro abilità mefistofeliche, per i loro strani discorsi e per gli ancora più strani marchingegni che costruivano a ogni pié sospinto. Si avvicinarono al non troppo giovane Principe e si presentarono.


“Salve, ehm, giovanotto, noi siamo i TSO, famosi in tutto il mondo per le nostre incredibili invenzioni (nonché per i nostri discorsi bizzarri e per le nostre abilità diaboliche). Il tuo è lo sguardo di chi ha bisogno di una mano, e noi siamo qui per aiutarti. Cosa ti turba? Spiegaci!”
“Vago da tempo per prendere moglie, devo sposare una Principessa eppure tutte quelle che incontro non mi sembrano all’altezza, non mi sembrano per niente delle Vere Principesse “ rispose l’infelice.
“In che senso non lo sono? Metti in dubbio la loro regalità?!” dissero in coro i TSO.
“No, no, non è quello! Io metto in dubbio…”Eh già: cosa metteva in dubbio? “Beh, io metto in dubbio la loro prestanza fisica! Ecco, sì. Ho capito cosa voglio, io voglio in sposa una Vera Principessa, una principessa… A tutto tondo! Una principessa tutta da accarezzare. Soffice e carnosa in cui far sprofondare le mani, come le foglie di quel pratone del mio regno! Insomma la mia principessa dovrebbe essere bella formosa!”
“Giovanotto, ma scherzi?!” urlò il signor Sorso. “Qui si sta narrando una fiaba, non si fa mica della fantascienza o della pornografia! Tralasciando che di questi tempi trovare una donna in carne è quasi impossibile, ma poi che messaggio vorresti passasse alle nuove generazioni? Che le Vere Principesse possono anche non essere magre? Che dovrebbero fare altro dal farsi i selfie? Ma non sarai mica una specie di sovversivo, un comunista o roba simile?!”
“Fiaba?Selfo cosa?” biascicò il Principe. Era un bel po’ confuso.
Come un fulmine, il signor Ordessi tirò via il signor Sorso e gli ricordò sottovoce che i personaggi della storia non erano fatti per l’autoconsapevolezza, e che il compito assegnato dal narratore ai TSO non era certo quello di mandare un povero Principe, per di più pargolo, in confusione.
“Perdonate il signor Sorso” esclamò turbato il Terceti “egli straparla in preda alla voce degli Dei, insomma si droga. Ma voi, caro Principe, siete senza dubbio un personaggio fondamentale in questa storia. A noi è stato affidato un ruolo molto importante, che di certo non è di mandarvi in confusione ma che per il resto non ci è molto chiaro, in ogni caso è certo che dobbiamo aiutarvi. Quindi… Oddio, cos’è che dovevamo dirgli… Ah, sì: Principe, tornatevene a casa e dormiteci su!”
“Beh, d’accordo, è proprio quello che farò” rispose quello, e ancora un po’ confuso, e soprattutto deluso, il Principe se ne tornò a casa.
La notte seguente al suo rientro scoppiò un incredibile temporale. Dalle finestre del castello si intravedevano lampi, riflessi giallo-azzurri fra le fronde del pratone bagnato le cui foglie oscillavano vorticosamente. La Regina era così contenta che il suo pargolo fosse tornato ancora celibe che quasi non badò a tutto il trambusto provocato dall’incessante pioggia, e certamente nemmeno sentì suonare il campanello del castello.

Fu il Re in persona ad aprire il portone: quando lo fece rimase scioccato dalla giovane donna che gli si parò davanti, grassoccia e fradicia dalla testa ai piedi. Il Re non riceveva molti ospiti, ben pochi di quelli erano donne, meno ancora erano fradice, quasi nessuna era grassoccia e in ogni caso tutti avevano il buongusto di arrivare dopo le dieci e mai prima delle diciotto.
“Perdonate, ma voi chi siete?” le chiese.
“Io sono Principessa” rispose quella “e vi chiedo ospitalità, giacché piove.”
“Be’, che piove lo vedo” commentò il Re “ma entrate dunque, entrate, saremo ben lieti di ospitarvi, cara Principessa.”
“Caro” bisbigliò la Regina, che nel frattempo era accorsa al fianco del marito “ma come ti salta in mente di far entrare una sconosciuta in casa, e poi che ci fa una Principessa da sola di notte sotto un acquazzone, e…”
“Sempre a lamentarti, tu, sempre a far domande!” tuonò il marito.
“A voler essere precisi le mie domande ci avrebbero salvati dalle truffe dell’architetto, del designer, dell’urbanista, del notaio, e dalla fregatura di quel maledetto pratone…”
“Insomma, io non ti sopporto più” tuonò nuovamente il consorte, che in effetti fuorché tuonare non aveva grandi strumenti “Me ne vado a letto! Buona notte moglie, e buona notte Principessa!”
La Regina rimase sola con la giovane donna, che ancora sulla porta aveva assistito, bagnata e indifferente, a quella scenetta di discutibile gusto. La vecchia regale ora la scrutava con indignazione malcelata. Fortunatamente quel trambusto aveva fatto accorrere all’ingresso del castello il Principe , il quale vide la giovane e in quattro e quattr’otto si innamorò perdutamente di lei e delle sue forme tanto sinuose.
Notando che le iridi del figlio avevano preso le sembianze di rossi cuoricini, la Regina, infuriata, pensò bene di farla pagare alla giovane. Avrebbe finalmente fatto uso di buona parte della paccottiglia che aveva in casa: tanto per cominciare le avrebbe preparato un talamo usando ben venti materassi, per sottolineare quanto fosse grassa e metterla a disagio – un materasso solo non le sarebbe bastato! Ma la crudeltà della Regina non si sarebbe fermata all’umiliazione, no: sotto i materassi avrebbe disposto il pisello maledetto, che duro com’era avrebbe certamente impedito alla fanciulla di dormire comoda. Così, posizionò il pisellino in terra e iniziò ad impilarci sopra i materassi. Poi invitò la ragazza ad entrare.
La giovane Principessa fu assai perplessa: davanti ai suoi occhi c’erano impilati, uno sopra l’altro, venti materassi dai colori più disparati. Tutti insieme sembravano gli strati di una torta infinita. Per quanto assurda, comunque, la situazione era pur sempre preferibile alla pioggia che si era lasciata alle spalle. Ringraziò con voce asciutta, chiuse la porta e iniziò ad arrampicarsi.
Giunta in cima cercò di infilarsi con tutte le sue forze nella fessura angusta rimasta fra l’ultimo materasso e il soffitto, ma era davvero troppo stretto. Poggiò la pianta dei piedi contro il soffitto e iniziò a spingere, per farsi un po’ più di spazio. Spingeva e spingeva e spingeva finché non ci fu un “crack”, e dopo il “crack” un boato enorme. In un attimo tutt’intorno fu un misto di mattoni e materassi, travi e tegole. Del castello non era rimasta che una traccia a pavimento, a riprova dei pessimi materiali usati dall’architetto nella costruzione.
Il Re, la Regina, il Principe, la Principessa e il pisellino duro come un sasso rotolarono beatamente: fra le macerie prima, e sul pratone umido e soffice poi. Il pratone, notò Principessa, era ben più comodo di qualunque materasso – piselli o non piselli. Invece il Principe, per la prima volta in vita sua, non notò affatto la morbidezza del Pratone, perché in testa aveva solo Principessa.

La prima esclamazione della moglie, un sonoro “Te lo avevo detto!”, non colse il Re di sorpresa. Intanto che i regnanti recriminavano, destino volle che Principe e Principessa rotolassero vicini, tanto vicini che baciarsi, nascosti fra le alte e carnose foglie, fu un attimo. Allontanate le reciproche labbra il Principe sussurrò:
“Piacere, io sono Adalberto.”
“Piacere – rispose la ragazza – io sono Principessa.”
“Cioè, aspetta, è il tuo nome?” rispose.
“A dire il vero è il mio cognome. Il mio nome è Vera. I miei genitori sono un po’ strani….” confessò a mo’ di scusa.
“Be’, neppure i miei scherzano!” la consolò il Principe.
E di fatti il Re non scherzava quando, il giorno dopo, confessò che a causa della sua inettitudine (e delle truffe subite) (ma soprattutto della sua inettitudine) non c’erano i fondi per ricostruire il castello, né tanto meno per celebrare le imminenti nozze.
Fu in quel momento che dalle fronde del pratone uscirono i TSO. Dovevano restituire al Principe il borsello scordato al bar, come da istruzioni del narratore, ma vedendo tutto quel disastro capirono che il borsello era solo un pretesto: era arrivato il momento di aiutare il protagonista!
Era fondamentale che in quel paese si iniziasse a produrre qualcosa: per risollevare le sorti di tutti servivano pecunia, reddito e quattrini! La colpa di tanta improduttività, lo si è detto, era senza dubbio di quel soffice pratone, che catturava tanta attenzione e di cui evidentemente bisognava liberarsi. I Signori Terceti, Sorso e Ordessi tirarono così fuori le proprie mefistofeliche matite, e la diabolica carta nonché le gomme e pure i carboncini. Fecero qualche schizzo di progetto e poi decretarono la loro idea. Era evidente che il pratone era comodo, e che piaceva a tutti starci seduti sopra. Perciò lo avrebbero tagliato in porzioni rettangolari, impacchettato, venduto ed esportato: così che tutti potessero avere un soffice pratone su cui riposare le terga, e il piccolo paese potesse avere in cambio un po’ di pecunia.
Grazie al Pratone™, il piccolo paese divenne ben presto famoso in tutto il mondo. La Regina dovette ricredersi circa l’inutilità di certi oggetti strambi, dato che il business del Pratone™ li sollevò vita natural durante da qualsiasi problema economico. Adalberto e Principessa si sposarono e vissero per sempre felici e contenti, con un bel rettangolo di Pratone come letto e, conservato in una teca, in ricordo del giorno in cui era scoccato il loro amore, un pisello secco, vecchissimo e duro come un sasso, che si diceva essere maledetto o magico o qualcosa del genere (e su cui nessuno, grasso o magro che fosse, avrebbe mai più provato a dormire).
Fine.